VENAFRO – Quando Venafro era un piccolo centro, le fiere che si susseguivano nel corso dell’anno, quasi con la regolarità mensile, erano avvenimenti importanti per la vita quotidiana. A cominciare da quella della “Befania” (Epifania) e della “Cannelora” (Candelora) rispettivamente a gennaio e febbraio, per continuare con la fiera delle ricotte e “ciammaruche” (lumache) e di “San Pascale” (San Pasquale), entrambe a maggio. Seguivano a ruota: “Sante Necandriéglie” (la prima domenica di giugno) e “Sante Necàndre” (non c’è bisogno qui di tradurre), il 18. Non mancava “la fiera “riCuàrmene” (del Carmine) e, in agosto, quella “re Sant’Armiste” (Sant’Ormisda). C’erano ancora, se vogliamo dirle proprio tutte, le fiere di “Sante Michele” (San Michele), “Sangiuànne” (San Giovanni), la “Lenziata” (l’Annunziata) e finalmente la “Cuncètta” (l’Immacolata). Queste ultime sicuramente nel giorno della propria festa.
Man mano però sono andate scomparendo soppiantate dalla presenza ormai di mezzi meccanici, trattori, furgoni, auto che permettevano rapidi spostamenti in luoghi di produzione e rivendite più selettive; si sono aperti negozi sempre più riforniti e mercati settimanali ricchi e variegati. Per non parlare oggi della merce che ti arriva comodamente e quasi all’istante a casa, tramite Internet. Altro che fiere! Sono rimaste in tre o quattro soltanto: l’Epifania (quasi solo giocattoli, per genitori distratti e frettolosi), San Nicandro, il Carmine e la Concetta. Quest’ultima si è andata trasformando nel tempo. Prima iniziava dai primissimi giorni di dicembre e terminava l’otto. – Perché durava tanto? – mi chiedevano puntualmente i bimbi a scuola quando parlavano della miscellanea venafrana. – Perché questa era una fiera essenzialmente di animali e nei tempi antichi non c’erano le auto per trasportarli, bisognava viaggiare a piedi o con i carretti per le merci. Allora cominciavano ad arrivare asini, muli, vitelli, pecore, capre, scrofe seguite da nuvole di porcellini, mentre il contadino che le precedeva da vicino agitava del granturco in un paniere per incitarli a procedere.
Sostavano tutti nella taverna “ri Cinciariegl”, una delle tre cantine di Portanuova. Era un enorme edificio che occupava tutto l’ampio semicerchio delle nuove imponenti costruzioni: magazzini sotto e numerosi appartamenti sopra. Un grandissimo portone immetteva in un altrettanto ampio androne pavimentato con lastroni di pietra, che continuava con una stalla enorme (qui era tutto esageratamente spazioso) dove pernottavano gli animali… e gli uomini. C’era a un lato un altro spiazzo scoperto, dove, tra una contrattazione e l’altra o ad un affare concluso, compratori e venditori giocavano a scopone, a morra, a bocce… e bevevano vino.
Dai locali dove c’è stato fino a poco tempo fa la farmacia, fino alla stazione di benzina la costruzione continuava bassa, era di due piani soltanto, con delle persiane verdi (quella sovrastante la taverna era invece un casamento molto alto). Frequentavo spesso la casa sulla taverna perché vi abitava una zia: ricordo una cucina grandissima(!), non ne ho mai visto una più ampia, nemmeno su, al castello.
Affacciava invece su Portanuova con un balconcino strettissimo, da casa di bambole. La costruzione più bassa, quella a due piani, con le persiane verdi, era adibita a locanda, una specie di albergo condotto dalle sorelle <<Muast gli ascitt>> nonso se è esatto nel suo dialetto, né cosa significhi.
Avevano entrambe cappelli nerissimi, pur non essendo proprio giovani. Allora questo particolare mi incuriosiva. Sicuramente erano tinti. Bene, qui pernottavano i visitatori della fiera che avevano più disponibilità finanziaria, (non c’erano d’altra parte altri alberghi) e frequentavano anche il vecchio e unico “Caffè” di Venafro, a Portanuova, frammisti spesso, ma a loro insaputa, a briganti che avevano il loro covo sulle montagne tra Ceppagna e San Pietro Infine; questo però molto lontano nel tempo.
C’era, accanto al grande portone della taverna un negozio di alimentari di cui era proprietaria donna Raffaelina Andreozzi, moglie del sindaco, maestro Palumbo. Nel negozio troneggiava un altissimo banco di legno, coperto da una pietra di marmo bianco e vi aleggiava sempre un odore di marsala e vaniglia. Avevano anch’essi delle camere di sopra, non so se ci abitassero pure lei e il marito; ricordo che mentre giocavo con una nipotina della stessa, Isabella, mi incantavo davanti a una cristalleria piena zeppa di oggetti di porcellana preziosi e fragili, allora mi sembravano solo carini! Giocando a nascondino si correva in quelle camere naturalmente enormi, tutte comunicanti tra loro e tutte aperte.
Non ci perdiamo per strada e torniamo alla fiera. Le trattative per la compravendita degli animali, si svolgevano su uno spazio tra gli uliveti verso Maiella fin dietro la Chiesa del Purgatorio. Non c’era l’attuale strada che porta a Pozzilli, ma uno stretto, sassoso viottolo quasi impraticabile. Se ai partecipanti della fiera non bastavano le tre cantine di Portanuova, nel suddetto spazio tra gli uliveti (dove del resto passavano tutto il giorno per le trattative) trovavano delle donne capaci e intraprendenti che cucinavano sul fuoco pasta e fagioli, della trippa, tanto baccalà, spezzatino con le patate… in grosse pentole annerite e padelle di ferro, all’aperto. Il pasto si consumava sotto “tende” improvvisate, fatte con paletti di legno conficcati nella terra con teli stesi sopra. Antenate degli odierni stand. Il tutto poi diventava un po’ rocambolesco se pioveva. E finalmente la fiera terminava: gli uomini avevano fatto acquisti importanti per il proprio lavoro, quasi tutti avevano ora il maialino da crescere o quello da ingrassare e uccidere da li a poco.
Le donne avevano comprato un berretto per il marito, un grande ombrello verde, un cappottino per il più piccolo che ne aveva davvero bisogno. Un po’ di baccalà secco per il prossimo Natale… dei mandarini e fichi secchi per la famiglia. Qualcosa per loro la rimandavano alla… prossima fiera. Tanto non era poi così necessaria!
Maestra Rosaria Alterio
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