VENAFRO – 8 Marzo, la maestra Rosaria Alterio rende omaggio a “la donna artigiana del passato”

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VENAFRO – Senza scomodare donne famose della tradizione e dell’attualità che rimbalzano di frequente in questa giornata in televisione e nei vari circoli culturali per le quali nutro rispetto e ammirazione, sono stata da sempre un po’ affascinata dalle popolane che, senza aver respirato nella propria casa musica, libri, conversazioni, hanno fatto miracoli nella loro sconosciuta quotidianità di cui spesso non sono state consapevoli nemmeno esse stesse. Mi piacerebbe ricordare un po’ dettagliatamente, dopo la donna contadina e la signora feudataria degli anni passati, la categoria delle donne-artigiane, peculiarità forse inedita di Venafro.

Gli artigiani, accanto ai contadini, erano molto numerosi a Venafro, nella prima metà del secolo scorso, ma già da qualche decennio successivo, decisamente sulla via del declino, poi la brusca totale scomparsa. Lavoravano nelle botteghe del Centro storico, il piccolo locale era quasi sempre di proprietà dei signori ai quali pagavano un modesto affitto, oppure si pareggiava la bilancia con merce di scambio, nel senso che se l’artigiano faceva il falegname, lavoretti al palazzo non mancavano; se aveva un salone (come si chiamavano tutti i locali prima dei vari hairdresser’s, fashion hair…), barba e capelli, con precedenza assoluta, erano assicurati per tutto l’anno al proprietario. L’attività di molti di essi era legata al lavoro dei contadini: fabbri, sellai, carradori, maniscalchi…, altri servivano a tutta la comunità. C’erano tanti sarti e calzolai, molti di essi facevano anche parte di una banda musicale che c’era prima a Venafro. Mentre le donne in genere si apprestavano a prendere le redini della propria identità, le artigiane di quel periodo, come le contadine, vivevano una vita molto dura; le prime dovevano “arrabattarsi” anche a una certa “mobilità” di occupazioni sfruttando potenziali inclinazioni. (L’artigiana invidiava un po’ la moglie del carabiniere, dell’impiegato comunale, del professore (ricordo da sempre le scuole medie e il liceo classico a Venafro) perché in famiglia si poteva contare su uno stipendio fisso, anche se minimo. Invidiava anche un po’ la merciaia, considerata quasi un’imprenditrice e la moglie del panettiere o del macellaio che aiutavano il marito nella conduzione del piccolo commercio e godevano di un certo benessere. Non invidiava la “signora” quasi feudataria, perché viveva in una realtà troppo diversa dalla sua, quasi rarefatta, dove anche i sentimenti si cristallizzavano. Rispetto incontrastato era riservato alla “signora comare”, la “levatrice” (ostetrica) che andava di casa in casa ad aiutare le donne a partorire e a seguirle per i primi bagnetti al neonato).

Le mogli degli artigiani pulivano scrupolosamente le piccole abitazioni, preparavano con puntualità il pasto a mezzogiorno. Si recavano come le contadine e le “cameriere” dei signori, alle “Quattro Cannelle” a rifornirsi di acqua che trasportavano in grosse tine di rame che reggevano in perfetto equilibrio sul capo e, se in prossimità delle loro abitazioni non c’era un pozzo o una cisterna, oltre che per dissetarsi, quell’acqua doveva servire per tutti gli altri usi. Badavano all’essenzialità dei figli: che andassero a scuola e “al mastro” il pomeriggio, che avessero le orecchie pulite, che finissero la minestra nel piatto, che la sera non si sfrenassero troppo nel vicinato perché c’erano anche “le lezioni” (compiti) da fare (su quest’ultima cosa il controllo non era dei più severi!). non li dovevano accompagnare a scuola di lingue o di danze, a piscine e compleanni… Al limite, la mattina presto ancora piccolissimi, avvolti in uno scialle e a piedi, a casa della nonna, della zia, se la mamma quel giorno doveva svolgere un’occupazione più urgente.

L’artigiana aveva spesso lei stessa un anziano di turno a cui badare. La biancheria la lavava al lavatoio comunale bello grande, parzialmente coperto e ricco di acque. Era sempre affollato, si cercava perciò di “accaparrarsi” ogni volta il posto a monte, ma l’acqua scorreva con tale abbondanza e rapidità che la limpidezza non era un problema. Tra un lenzuolo e l’altro poi si parlava, si scherzava, si sussurrava qualche “segreto” personale o altrui, ci si aiutava a tirar su la coperta bagnata dall’acqua, molto spesso si litigava. Le più scrupolose procedevano in casa con il bucato a mano con i soli ingredienti di cenere e acqua bollente, era un procedimento un po’ lungo e complicato: si sistemava la biancheria già lavata in una capiente tinozza di legno con un foro nella parte inferiore, si copriva il carico con un canovaccio ruvido e resistente e su questo si versava dell’acqua bollente mischiata alla cenere di legna bruciata nel camino. Le lenzuola, dopo ripetuti risciacqui, venivano bianchissime e “odoravano per molto tempo di pulito”, si usava solo il sapone, a volte fatto in casa, senza detersivi, sbiancanti e ammorbidenti vari. Le lavandaie “di professione” portavano il bucato ad asciugare nel luogo più vicino e soleggiato della propria abitazione, spesso sulla Cattedrale: le lenzuola strettamente ritorte a ciambella nella bacinella che si portava in testa, venivano sciorinate, sospese a lunghe e robuste corde e, nelle giornate di vento e di sole, sbatacchiavano come ali di angeli giocosi. Lo stesso sistema si usava di tanto in tanto con le stoviglie: cenere e acqua bollente rendevano piatti e posate scivolosi e sterilizzati, e ne avevano proprio bisogno perché giornalmente si lavavano con la sola acqua calda, addirittura, molto spesso, con l’acqua di cottura della pasta perché quella brodaglia serviva poi al beverone per il maiale (chi non l’aveva lo passava alla vicina contadina che le faceva assaggiare un po’ di carne, quando lo ammazzava, con l’immancabile sanguinaccio). Il lavoro dell’artigiana era perciò quello della casalinga, molto spesso non si esauriva proprio qui: quelle a cui piaceva cucinare aiutavano parenti, amici e anche conoscenti nelle “tavolate” che si facevano in casa in occasione di battesimi, prime comunioni, matrimoni. Quelle che avevano la tendenza dell’estetista e sempre in condizioni speciali facevano messe in piega in casa, truccavano tenuamente il viso stendendovi solo un velo di cipria, limitandosi a sfoltire un po’ le sopracciglia, del rossetto sulle labbra e smalto trasparente sulle unghie, le “più ardite” optavano per quello rosso suscitando sempre un po’ di scandalo intorno. Facevano anche, nella propria casa, le sarte, le ricamatrici, maglie e maglioncini per la famiglia e su commissione e favolosi merletti: uncinetto,, chiacchierino e ricami, tanti ricami! Tutto il corredo delle spose. E arrotondavano così i magri guadagni del marito.

Le più bisognose andavano a raccogliere le spighe al tempo della mietitura, quelle che lasciavano nei campi i mietitori e le prime trebbiatrici; andavano “a giornata a raccogliere le olive, a novembre, dicembre, con le pioggerelle, la nebbia, l’umidità: quando c’era il sole erano vere scampagnate, ma il contenuto del paniere delle vettovaglie era sempre molto scarso, non fosse altro perché “non si poteva perdere tempo a mangiare” il buio arrivava presto e il lavoro, allora tutto manuale, era duro e interminabile. Anche qui poi, terminato il raccolto vero e proprio, c’erano le “vachiatric” (da “vach” l’oliva), stiamo parlando sempre di donne artigiane, che andavano raccogliendo le olive che erano sfuggite al proprietario (così come le solitarie spighe di grano) e che altrimenti si sarebbero perse. Il paniere, dalla mattina presto fino a “quando ci si vedeva” lentamente, molto lentamente, “a vach a vach” si riempiva. La schiena però faceva sempre un po’ fatica a raddrizzarsi.

Andavano anche ad aiutare i contadini a trebbiare il grano, a spannocchiare il granturco, a raccogliere i pomodori, a infilare, per essiccarle, grosse foglie, di tabacco, lavoro che qui, a Venafro, durò solo qualche tempo. Non esitavano a mettere insieme grossi fasci di legna per l’inverno racimolandola sulla montagna, talvolta erano così grandi sulla testa di quelle più esili che i grossi fasci sembravano camminassero da soli.

E come se ciò non bastasse, c’erano quelle a cui piacevano i bambini e, se non avevano una famiglia numerosa e abitavano in una casa appena un po’ capiente, non ci pensavano due volte a riempirla di marmocchi rumorosi e vociferanti per giornate intere. Le chiamavano “le maestre”. Ce n’era una sul mercato, Lavinia, una nei pressi della chiesa di San Francesco  e un’altra proprio sul crocevia, verso il Seminario, l’attuale Carsic. La chiamavano la “maestra pazza”: non doveva però esserlo del tutto visto che le affidavano i propri figli.

Raccontavano i piccoli alunni che per far fare l’uovo a qualche gallina “più ostinata” che aveva in casa frammiste a loro, la buttava, a zampe legate, giù per le scale.

Insomma, per dircela proprio tutta, nemmeno la donna artigiana, assieme a quella contadina, costretta da piccola a portare pesi sulla testa che ne limitavano perfino la crescita, con un marito spesso arbitro e padrone della situazione, senza l’aiuto di parrucchiere, estetista, palestra, mancanza di mezzi, vestiario quasi solo per coprirsi, la vita non doveva essere proprio tutta “rose e viole”!

Come non lo è adesso del resto viste e sentite le violenze di cui molto spesso continua a essere vittima nel mondo intero. Il discorso qui sfocerebbe in un oceano, ma devo proprio concludere e lo faccio col grande Terzani quando afferma che “La terra è letame e cenere. Poi torna prato”.

Auguriamoci solo che quel “Poi” non duri in eterno.

 

Maestra Rosaria Alterio

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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