POZZILLI – Una molecola sperimentale potrebbe ridurre gli effetti neurodegenerativi della Malattia di Huntington. Studiata su modelli animali, appare capace di ripristinare il corretto metabolismo di alcuni sfingolipidi, componenti essenziali delle cellule
Le ricerche sulla malattia di Huntington, una grave e rara condizione genetica neurodegenerativa che colpisce la coordinazione dei movimenti e porta a un inarrestabile declino neurologico, si arricchiscono di una nuova possibilità terapeutica. Gli sforzi dei ricercatori internazionali si sviluppano su due direzioni: da un lato un’azione sul DNA dei pazienti, puntando a diminuire la produzione di huntingtina (la proteina mutata responsabile della malattia di Huntington), dall’altro la possibilità di proteggere i neuroni limitando i danni prodotti dalla molecola stessa.
È su questa seconda strada che si sviluppa una ricerca condotta dal Laboratorio di Neurogenetica e Malattie Rare dell’I.R.C.C.S. Neuromed di Pozzilli e pubblicata sulla rivista scientifica Molecular Therapy. I ricercatori hanno utilizzato, su modelli animali della malattia, una molecola sperimentale capace di agire sul metabolismo della sfingosina-1-fosfato (S1P), un lipide essenziale per la sopravvivenza delle cellule neuronali. Studi precedenti condotti dallo stesso laboratorio avevano già dimostrato come gli sfingolipidi giochino un ruolo centrale nella malattia di Huntington, ed è per questo che gli autori dello studio hanno puntato a ripristinare il loro corretto metabolismo
“La molecola che abbiamo studiato, chiamata THI – dice Vittorio Maglione, del Laboratorio di Neurogenetica e Malattie Rare – riesce a bloccare un enzima che causa la degradazione della S1P. In questo modo abbiamo ripristinato i corretti livelli di alcuni glicosfingolipidi, con risultati molto interessanti. Nei modelli animali, infatti, abbiamo osservato un effetto protettivo verso la mielina (la sostanza che riveste le fibre nervose, proteggendole e facilitando il transito degli impulsi elettrici, ndr) e verso le sinapsi (i punti in cui i neuroni stabiliscono connessioni, ndr)”.
Inoltre il farmaco sperimentale agisce anche su due altri meccanismi cruciali, come spiega Giuseppe Pepe, “Abbiamo osservato l’attivazione dell’autofagia, un processo cruciale nel quale le cellule ‘riciclano’ i loro componenti, e una riduzione nell’accumulo di huntingtina nei neuroni. Queste osservazioni ci fanno ritenere che l’azione sul metabolismo della S1P possa costituire un obiettivo concreto nella ricerca di terapie miranti a ridurre la neurodegenerazione indotta dall’Huntington”.
Come per la maggior parte delle malattie rare, la Malattia di Huntington non ha una cura definitiva. “I nostri studi, – conclude Alba Di Pardo – potrebbero favorire il riposizionamento di farmaci che vengono già utilizzati per altre patologie, caratterizzate da disfunzione dei glicosfingolipidi, o promuovere lo sviluppo di nuove molecole con le stesse caratteristiche”.
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