Venafro, i racconti della maestra Alterio: “Il presepe che occupava tutta la casa”

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VENAFRO – “Il presepe che occupava tutta la casa”.

E meno male che la casa era piccola altrimenti pastori e zampognari si sarebbero persi, nel buio della notte, sulla strada di Betlemme. Il ripiano del comò che la mamma metteva a disposizione, ogni Natale, per un gomitolo di presepe, ad Amalia -bambina di altri tempi- non bastava per contenerlo tutto. Le sembrava troppo appartato in un posticino per conto suo perciò lo faceva “dilagare” un po’ dappertutto. Non voleva essere, figuriamoci, uno dei soliti presepi originali a tutti i costi: era solo una “sistemazione” di personaggi stabilita da una bambina che negli anni ’50 non aveva giocattoli, anzi non aveva nulla. Aveva solo tanta fantasia e voglia di giocare. I suoi giocattoli, assieme a qualche malandata bambola di pezza, erano appunto i pupazzetti di gesso, qualcuno anche gravemente mutilato, retaggi di antichi presepi. La bimba non sapeva cosa fosse la tristezza, anzi era una bambina felice. Nemmeno adesso si sente defraudata di qualcosa perché visse la sua infanzia in un mondo dove l’amore tra i genitori e per lei, splendeva come il sole. La mamma partecipava all’allestimento convincendo il marito che Amalia “aveva detto” che -in quel modo- facevano pure loro parte del presepe. Il marito fingeva di crederci e, siccome le amava talmente tanto entrambe, le “lasciava fare”. Il massimo del suo dissenso era quando lasciava cadere, fingendo di inciamparvi, la statuina di qualche pastore disseminate sui gradini della bella, breve scala di pietra a semichiocciola, sempre pulitissima, e la lasciava lì continuando a salire intimamente un po’ divertito. Aveva tentato debolmente all’inizio di suggerire alla figlioletta di posizionare la stella cometa all’interno del portoncino, ma quest’ultima argomentava che la cometa doveva “parlare” anche con le altre stelle che affollavano brillanti il cielo nelle fredde notti di dicembre. Il padre, carradore, aveva la sua bottega di artigiano in un locale attiguo, vicinissimo al portoncino verde della casa vera e propria e si sentiva un po’ a disagio quando i contadini che passavano sui carretti per recarsi nei campi a lavorare e i rari passanti guardavano incuriositi quella grande stella cometa di carta disegnata e colorata da una bimba che “si era fermata” sul portoncino di legno accanto. Confidava allora in un bell’acquazzone che, assieme a un forte vento, l’avrebbero rovinata. Puntualmente ciò avveniva: la piccola casa, allora nell’estrema periferia, quasi in campagna, flagellata tutt’intorno da piogge battenti e venti impetuosi, la sbrindellavano tutta. La bimba delusa rinunciava a costruirne un’altra e i genitori le promettevano: -Prima o poi te ne regaleremo una che non si rovina-. Quel “prima o poi” non venne mai e i magi continuarono a stare appena dietro, all’interno del portoncino verde, indecisi sulla strada, visto che la stella non era più in grado di guidarli; siccome però erano dei sapienti, dopo qualche giorno di indecisione, si avviavano, seguendo a distanza pastori e zampognari, un po’ ritardatari, che salivano la breve scala di pietra. Davanti alla bocca del piccolo forno a legna della cucina c’era solo lo spazio sufficiente per uno spaccalegna e un arrotino, immobilizzati notte e giorno nei loro mestieri. Sulla robusta panca, sempre in cucina, che reggeva la tina di rame con l’acqua da bere e il secchio di alluminio accanto con quella per gli altri usi, trovavano una pittoresca collocazione una fontanella dove una donna attingeva acqua con un secchiello e un’altra, con un’oca sospesa a un braccio, che, sulla strada per Betlemme, sussurrava vicinissima alla comare, forse, la notizia della straordinaria Nascita. La mensola del camino accoglieva calda e affumicata le casette di sughero che oggi diremmo del centro storico che il papà, la notte di Natale, provvedeva ad illuminare, facendo filtrare attraverso le finestrelle la fioca luce di una candela, accesa dietro di esse. Poi si entrava nella camera da letto che esauriva tutta la casa. Lo specchio del comò qui serviva a trasformare in una folata di angeli, quei pochi che la ragazzina vi aveva sospeso ingegnosamente, un po’ distanti l’uno dall’altro. (La lupa capitolina di gesso con la sveglietta incastonata sotto il collo e l’antica conchiglia sulla pietra di marmo del comò perdevano il loro ruolo di protagoniste fino all’Epifania). E finalmente la piccola capanna approdava sul comodino della bimba: era una normalissima capannuccia di legnetti. Di particolare aveva una microscopica copertina che ricopriva il Bambino, l’aveva intrecciata lei stessa con un residuo di lana gialla: non sopportava di vedere quel tenero Bambino, così esposto al freddo!

E in quella camera era freddo quasi come fuori! Non ci potevano essere drastiche variazioni sul tema, sempre per esigenze logistiche, qualcuna più lieve se la poteva concedere: ad esempio la pecora che si era perduta, unita all’inseparabile toppa di muschio, sempre freschissimo, trovava diversi cantucci anche nell’arco della stessa giornata. Quando capitava saperla fuori al balcone e sentiva all’improvviso di notte piovere a dirotto, Amalia provava un po’ di rimorso sapendola incuneata tra il vaso di gigli rossi e il laghetto gelato (una pietra con una caratteristica cavità centrale). – Non può correre a ripararsi – pensava insonnolita. Poi capitolava: – Tanto è di gesso! – E si riaddormentava sprofondata nel suo caldo e profumato “saccone” (materasso rinnovato e gonfiato ogni autunno con tenere foglie di granturco).

In seguito la vita non le aveva risparmiato momenti bui, anzi non era stata proprio tutta “una scala di cristallo” … ma quando, ancora adesso, ricorda quello strano, fantastico presepe -che la zia definiva con velato rimprovero- “sparpagliato” per la casa, un sorriso si fa strada nel suo cuore e vi rimane per un istante.

Rosaria Alterio

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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